Il vecchio Cocumella che s’alza massiccio di fronte al leggendario Consolino e con la sua guglia violenta si fa dominatore di un vasto giro d’orizzonte, é un luogo ancora oggi aspro, selvaggio e pauroso.
Qui salirono or sono mille e trecento anni (Sec. VIII) i primi monaci greci per vivere nelle grotte eremitiche la più macerante e severa ascesi anacoretica.
Il pellegrino che sale all’Eremo di Montestella resta sensibilmente colpito dal luogo – un abisso nelle viscere della terra! – ove per due secoli circa degli Eremiti vissero in contemplazione, in preghiera, in mortificazione. Impressionante U rimitiedu, uno stretto e lungo anfratto, ravvolto dall’ombra più fitta che affonda nella parete sinistra della grotta. La vita di questi contemplativi ci venne così riassunta da p. Francesco Russo: « La Grotta non era altro che una escavazione naturale nelle pendici della montagna, un rifugio per proteggersi dalle intemperie: in essa si trovava una cuccetta, uno stipetto al muro, dove si depositava il Salterio, che il monaco recitava giornalmente, qualche Icona e qualche manoscritto biblico o di contenuto ascetico.
Gli esercizi di pietà gli eremiti li facevano in comune, riunendosi periodicamente in una grotta un po’ più grande delle altre, adattata a oratorio o cappella. Il cibo era costituito da quello che le pendici del monte producevano spontaneamente, mentre le mortificazioni corporali erano addirittura inaudite ».
Da Eremo, di vita intensamente anacoretica e rigorosa, S. Maria della Stella diviene Monastero (minore) coi Normanni. E ciò si evince dal diploma del 1096, indizione V, col quale il conte Ruggero dota il Vescovo di Squillace — Giovanni Niceforo — della « Abbatìa santi Johannis de Stylo, Abbatìa santi Leonti, et ecclesia santi Nicolai cun Santa Maria quae prope est ».
L’Eremo diviene, coi Normanni, Grancia di San Giovanni Theresti e tale rimane per alcuni secoli. Da due lettere scritte ne 1569 dal Card. Guglielmo Sirleto — una alla città di Stilo e l’altra al nipote Vescovo Marcello Sirleto che amministrava la diocesi di Squillace— si sa che il Cardinale Antonio Carafa, Abbate Commendatario di S. Giovanni Theresti, percepiva le rendite anche di S. Maria della Stella, e ciò evidentemente, per la dipendenza di questa Grancia dalla Abbazia madre.
Nelle lettere il Card. Sirleto denunziava l’audacia « di questi di Stilo che di fatti si son messi in possesso et pigliato l’intrade di S. Maria della Scala (Stella) grancia di S. Giovanni Theresti, Abbazia, come sapete, posseduta da Mons. Ill.mo Carafa ».
Nel 1596 Francesco d’Arena é ricordato quale Abbate di S. Maria della Stella e nel 1614 « Prior de gubernio » Bartolo Carrozza.
Ci attesta la vita fiorente della Grancia di S. Maria della Stella sul, piano ascetico e culturale, l’inventario della libreria, compilato il 31 agosto 1604:
« 1) Due strumenti in carte di pecora latini — 2) Tri strumenti in carta di pecora greci — 3) Tutti i libri di lofitio numero 12 — 4) Tridici pezzi di libri in bergamina greci vecchi — 5) Otto libretti scritti a mano et stampa mezzi stracciati — 6) La Legenda Santorum a stampa latina — 7) Dui missali latini a stampa, e due greci — Uno Stauro Anastasimo vecchio a mano».
Da una scheda del notaio Giuseppe Vitale di Stilo del 1646 sappiamo che il Priore di S. Maria della Stella, grancia d’ordine di S. Basilio, censì a Didaco Paparo da Badolato una casa lasciata al detto monastero di Caterina Tropeano di quella terra.
Il testo documentario dal quale risulta che il Monastero Santa Maria della Stella, nell’anno 1646, é ancora « Grancia dell’ordine di S. Basilio » é la scheda del notaio Giuseppe Vitale da Stilo, citata dal Capiabli nelle Memorie delle Tipografie Calabresi. L’esigenza di dare rinnovati contenuti spirituali alle varie Congregazioni religiose — specie nel Mezzogiorno — indusse il Papa a sopprimere, con Breve del 22 dicembre 1652, le piccole e striminzite comunità conventuali.
Non abbiamo documenti dai quali si possa arguire che la Grancia di S. Maria della Stella, sia sopravvissuta alle decisioni pontificie.
E’ accertato invece che sul finire del secolo XVII i monaci basiliani, dopo secoli di vita ascetica fervida, si allontanano da S. Maria.
La notizia ci é data dal Catasto Onciario di Stilo, compilato il 1743:
« Il semplice Beneficio o sia Cappellania manuale di S. Maria della Stella, anticamente Grancia del Monastero di S. Giovanni Theresti, del quale presentemente é Rettore il Don Reverendo Paolo Antonio Arciprete Sotira ».
Si parla d’una presenza, alla vecchia grancia basiliana di S. Maria, di Padri Francescani i quali avrebbero costruito anche l’attuale conventino. Nel difetto della documentazione storica la memoria corre inalterata nella tradizione.
Nell’insieme cronologico l’unico periodo vacante é quello compreso tra il 1646 ed il 1743. Alla prima data S.Maria della Stella compare ancora come « Grancia dell’ordine si S. Basilio » ed al 1743 come « semplice Beneficio o sia Cappellania manuale ».
Si alternarono quindi, sotto la giurisdizione amministrativa immediata del parroco pro-tempore di Pazzano, i Romiti laici addetti alla vigilanza del pio luogo ed alla coltivazione delle terre della Madonna.
Sorse la Chiesa, si costruì l’acquedotto, s’é tagliata la strada nella roccia. E’ stato inaugurato il 12 agosto 1957 l’impianto di illuminazione elettrica.
La sera del 15 agosto, dopo una notte di preghiera nella Grotta della Madonna e quattro lunghe ore di cammino per il ritorno, sotto il sole, il vecchio pellegrino, vicino alle onde ploranti del mare, raccontò ai nipoti questa storia meravigliosa. La luna, in fase crescente, comparve nel cielo terso. Or lasciatemi ancora sognare — mormorò ai piccoli curiosi il vecchio — la bianca Vergine della Stella che ho pregato anche per la vostra felicità.
Al largo di questo mare il veliero s’arresta: i marinai perplessi non sanno se continuare o approdare a riva.
«Sopravvenuta intanto la notte — e qui lasciamo raccontare p. Giovanni Fiore, molto vicino all’episodio — ecco fra quella scurezza un raggio strisciante di fuoco quale uscito da vascello s’imboccava verso la grotta del monte in distanza di miglia dieci: non però veduto da pochi pastori, quali vegliavano sulle loro greggi.
Al farsi del giorno pubblicata dai pastori la visione, alla quale dava non leggero peso l’immobilità del legno; con che risvegliata la gente scese in mare e salita su del vascello vi ritrovarono una bellissima statua di pietra tra marmo della Vergine, qual si recava altrove: onde si fece argomento ch’ella gradiva di fermarsi più che in altra parte sicché pubblicandosi dappertutto si moltiplicò la gente con processione ed altre sacre dimostranze per condurre come già si condusse la venerabile statua…»
E la si condusse, secondo la versione di Libero Fiorenza ed Edoardo Pisani — scrittori di Pazzano — su di un toro irrequieto, che si rese buono sotto il peso amoroso della Madonna.
Salendo il sentiero irto e sassoso sotto il sole della stagione estiva, un limpido zampillo d’acqua sarebbe scaturito dal cuore dell’arsa roccia, per prodigio di Maria. La canzone popolare non omette il particolare e narra:
«Nci iru l’occhi nta la timpa nuda miraculu! cumparva na funtana»
Luigi Cunsolo chiude con questa immagine il poemetto “La Leggenda di Montestella”:
«E sopra il monte scese rilucente l’astro di fiamma nella notte, chiara di un immortale tremito di stelle.
Quando tra i cerri e i frassini del monte, la solitaria porpora del sole tinse le rocce pendule dell’antro, s’effuse un inno di commosso amore che lungo i freschi rivolti correnti discese a valle, dilagò da monte a monte, diventò battito insonne da mare a mare: sul dolore umano ora la dolce Vergine Marianella quiete del profondo speco le bianche mani alla preghiera giunge soavemente: e l’odono i mortali curvi nell’ombra della fosca sera».
Al momento sono distinguibili due strati di pittura ad affresco sovrapposti, con ben quattro raffigurazioni, alcune delle quali con brani palinsesti e suddivisi da un semipilastro in muratura che regge uno spuntone di roccia.
Su di uno è raffigurata, in alto, la SS. Trinità in un’impostazione iconografica conosciuta nell’Italia meridionale e insulare già dal maturo Trecento, come appare da una tavoletta attribuita a un pittore ligure della Chiesa di S. Spirito di Agrigento, oggi custodita nella Pinacoteca Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo e da tante altre testimonianze diversamente databili e stilisticamente definibili.
A Pazzano, comunque, dipenderebbe da elaborazioni evolute e forse pienamente rinascimentali, quando cioè la particolare iconografia può annoverarsi tra le più diffuse, se non addirittura più tarde, nella seconda metà del sec. XVI, potendovi segnalare la rara rappresentazione del Cristo con gli occhi aperti e l’inserimento in un paesaggio, dunque non sul consueto fondo dorato o di gloria celeste.
La scena è chiusa, a mo’ di lunetta, da una fascia che sembra continuare sul pannello limitrofo e inferiore raffigurante l’Arcangelo Michele, includendolo quindi nello stesso livello d’intonaco.
La figura dell’Arcangelo Michele è presentata quasi di prospetto, vestita di armatura, col braccio destro alzato e con la lancia puntata verso il dragone ormai calpestato e imbrigliato dalla mano sinistra che regge anche lo stadere: è un S. Michele ‘psicostatico’ o di chiusura superiore, componesse una immagine simbolica della Passione nota e ben diffusa nella pittura quattrocentesca, dove attorno al gruppo e alla croce stavano altri e significativi emblemi del Sacrificio di Cristo, come per esempio sulla Pietà della Chiesa della Riforma a Cosenza databile nella seconda metà del sec. XV.
Il giro dell’aureola della Madre, invece, è decorato da tre fasce, rispettivamente bianca, rossa e nera, completato da una perlinatura messa ben in risalto, che denota, inoltre, l’attenzione di questo espressivo pittore al passato artistico locale di marca orientale, da porlo in sintonia con gli affreschi da poco rinvenuti sulle pareti della vecchia cattedrale che sta emergendo sotto l’attuale Chiesa Matrice di Stilo.
La datazione al sec. XV inoltrato offerta dall’affresco più antico oggi visibile sulla parete sinistra, cioè la Pietà, potrebbe quindi testimoniare, come prima abbiamo suggerito, un possibile termine del ricercato mutamento di funzione della grotta di Pazzano, nonostante non sia del tutto chiaro se al momento dell’esecuzione della pittura i supposti spazi divisi fossero già riuniti.
In ogni modo, tale cronologia ben si presta ad accomunare la Grotta di S. Maria di Monte Stella con altri simili luoghi di culto presenti in Calabria, risalenti nella documentazione nota a un periodo compreso tra il Trecento e il primo Cinquecento, quali, elencandoli rispettivamente nella supponibile datazione, la Grotta di S. Maria di Praja a Mare, quella di S. Maria delle Armi di Cerchiara e l’altra di S. Maria della Grotta di Bombile di Ardore” (Giorgio Leone).
Al centro della grotta vi è l’affresco più antico denominato da Maria FALLA Castelfranchi, “Comunione di S. Maria Egiziaca”. “Si tratta dei resti di un pannello dipinto, in discreto stato di conservazione: la santa eremita è china verso il monaco Zosimo che porge l’Eucarestia… psicopompo’ che dir si voglia.
La figura era accompagnata sicuramente da un’altra che non è possibile identificare fra i frammenti palinsesti adiacenti, ed è interessante notare come l’insieme avrebbe potuto formare una sorta di pala d’altare a dittico con lunetta soprastante, secondo un modello antico e ben attestato in ambito ‘mediterraneo’.
Più a sinistra, oltre il pilastro in muratura che come detto divide la corta parete, è dipinta l’Adorazione dei pastori. Una pittura, questa, che non permette valutazioni precise sulla propria corrispondenza agli strati di intonaco, ma lo stile, esprimendo connotati di gustoso naïf, sembra deponga per un’assegnazione al Cinquecento maturo e a una situazione artistica contigua a quella fin qui rilevata.
Sullo strato inferiore, invece, è raffigurata la Pietà che si qualifica per una cultura di ampio respiro e alto livello, ovviamente più antica per il fatto di essere situata inferiormente nelle dette sovrapposizioni di intonaco.
La Madonna, avvolta da un ampio manto azzurro, il cui orlo è segnato da una profilatura bianca, regge il corpo di Cristo Morto. È seduta davanti a una croce, in cui sono segnate le venature del legno. La scena è inquadrata da una cornice segnata da due fasce colorate, verde brillante quella interna… bruna quella esterna…[…]. sa spaziale delle assi che ben s’accoppia a quella dell’avvolgente abbraccio di lei. Dietro di questa, a sinistra, è visibile una colonna, cosicché potrebbe nascere l’idea che nella formulazione originaria il pannello, del quale oggi se ne vede la cornice.
Il monaco Zosimo, anziano e barbato indossa probabilmente l’abito monastico, […]. S. Maria Egiziaca indossa invece una tunica fatta di pelli, l’abito degli eremiti per eccellenza. Lo stile quasi compendario dell’affresco… consigliano una datazione intorno alla fine del X inizio XI sec.
La leggenda agiografica narra della dura vita ascetica da essa intrapresa nel deserto dove viveva vestita da uomo da molti anni, dopo aver passato un periodo nel peccato. La ragione di questo travestimento è da ricercarsi nella tradizione gnostica secondo la quale ogni donna che si traveste da uomo entrerà nel regno dei cieli. “ In Italia meridionale, al contrario di altre aree dell’impero bizantino, come p.e. la Cappadocia, dove la scena della comunione di S. Maria Egiziaca è rappresentata con frequenza, essa è assai rara. L’immagine più antica sembra essere proprio questa di Pazzano…[…] la sua ubicazione all’imbocco della grotta, in alto, suggerisce innanzitutto una vocazione eremitica della grotta stessa…” la professoressa si chiede sul perché di questa scelta visto che è rara in Italia meridionale: “è possibile che questa scelta, colta e certamente non casuale, sia da collegarsi alla presenza, nella grotta, di un eremo femminile?” (Maria Falla Castelfranchi)
A di là delle varie ipotesi, la presenza di questo affresco e degli altri , testimonia una vocazione eremitica del luogo, che continua a parlare ad ogni visitatore.
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